Pietro Grasso in “prima nazionale” a “Velletri Libris” con il suo “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”
18 Luglio 2020Amelie Nothomb prossima ospite di “Velletri Libris”: sabato sera alle ore 21 al Chiostro la presentazione di “Sete”
18 Luglio 2020Un’intera esistenza all’insegna della lotta alla mafia al fianco tra i magistrati che sfidarono, con tenacia e coraggio, “Cosa Nostra”. Una delle pagine più avvincenti, purtroppo senza lieto fine, della storia italiana che Pietro Grasso ha vissuto in prima persona con la sua esperienza professionale. Impossibile, dunque, non abbinare al forte senso dello Stato e a quello di responsabilità la necessità di espletare un dovere morale, quello di completare anche editorialmente un lavoro iniziato da Paolo Borsellino e non terminato per i noti fatti di via D’Amelio. In quest’intervista che Pietro Grasso ha rilasciato a “Velletri Libris” approfondiamo alcuni aspetti del libro “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”, grazie alla viva voce dell’autore (e del suo ispiratore).
La lettera di Borsellino, di cui pochi forse erano a conoscenza, è diventata ispirazione per questo lavoro. Come ha lavorato sia da scrittore che da conoscitore coinvolto nei fatti?
Tutto è nato dal fatto che Borsellino in quei giorni del 1992 era con una tensione particolare, preso dal dolore della morte dell’amico e collega Giovanni Falcone. Aveva una frenesia per le indagini, non aveva tempo per nulla, girava, faceva le indagini e aveva iniziato vari interrogatori. Nonostante questo, alle 5 del mattino di quel 19 luglio, si prende la briga di incominciare a rispondere ad alcuni ragazzi di una scuola che non aveva potuto incontrare per impegni di lavoro. Interrompe, riesce a rispondere solo a tre domande e poi non può più finire quegli scritti per gli alunni… L’idea di completare tutto questo e far sì che il messaggio forte e potente di Paolo Borsellino, il suo testamento morale, potesse arrivare ai ragazzi di oggi mi ha convinto.
È stata una bella responsabilità da parte sua…
Certo, anche se il libro doveva nascere come una forma di commento, di poche battute, alla lettera di Borsellino che veniva pubblicata, insieme alle domande. Invece poi, complice il periodo del lockdown, ho ampliato il discorso perché è stato necessario contestualizazre il momento fino ad arrivare a quel tragico 19 luglio. Era importante ricostruire tutto il contesto e rispondere alle domande, attualizzando quelle a cui aveva risposto lui e completando quelle rimaste aperte.
Proprio in merito alle domande dei ragazzi, il rapporto fra i giovani e l’educazione alla legalità come è cambiato, oggi, rispetto ai tempi di Paolo Borsellino?
In quarantrè anni di magistratura sono sempre andato nelle scuole e ho incontrato sempre giovani molto attenti, con l’ansia di conoscere e di capire soprattutto il lato umano di questi personaggi. Con il racconto di aneddoti, storie, si interessano molto. Questa comunicazione ancora oggi è valida, gli studenti sentono che sei un testimone che non vuole salire in cattedra per dire cosa si deve e non si deve fare. Si racconta una storia vera, veicola un messaggio che viene recepito. Ho avuto spesso il riscontro di ciò che dico, incontrando ragazzi che nel tempo da alunni di liceo sono diventati professionisti, laureati, e mi hanno detto “Sa, quella storia che ci ha raccontato, ancora la ricordo…”.
Un’altra iniziativa che coinvolge molto i giovani è quella della nave della legalità. Molto più di un simbolo…
La nave della legalità che il 23 maggio porta i ragazzi di tutta Italia a commemorare Giovanni Falcone a Palermo gli consente di vivere un evento che incide sulla loro vita, è una tappa. Conversandoci, dicono che dopo aver fatto quel viaggio sanno da che parte stare, se c’è una scelta da fare non può che essere una scelta di legalità. Questa è una cosa che gratifica, dà forza, trasmette la sensazione di aver fatto completamente quello che si può per lottare contro la mafia.
Spesso si pensa alla mafia come un qualcosa di astratto e limitato. Non c’è invece un problema di mentalità?
Assolutamente sì. La lotta alla mafia non è solo fatta di arresti, carcerazioni e processi ma è anche e soprattutto un movimento culturale. Per combatterla si deve andare ad incidere su cultura, formazione, memoria e tradizione. Quel racconto orale, tipico siciliano, de ‘o cunto’, il cantastorie, vale anche per la mafia.
Il suo libro si rivolge, già dal titolo, ai ragazzi: a chi è diretto principalmente?
Questo libro è fatto molto semplicente, con linguaggio accessibile, perché rivolto principalmente ai ragazzi della scuola media in una fascia dagli 11 ai 14 anni. Ho cercato sinteticamente di pasasre in rassegna quel periodo e quelle storie che sono anche la mia storia, perché ho avuto al fortuna di vivere con questi grandi uomioni. Io mi sento in debito nei loro confronti e mi sento investito del dovere di tramandare la loro memoria.
Un ultimo quesito: lei ha battuto molto, in quest’intervista, sul concetto di storia e memoria. Nell’immaginario collettivo Falcone e Borsellino sono due eroi, lei spesso ha detto che non bisogna travisare questa definizione. Perché?
Quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino è una storia di perosne che a torto sono qualificate come super eroi o eroi. Nel senso che sembra quasi, secondo i ragazzi, che siano loro a dover risolvere i problemi grazie a poteri soprannaturali. Io invece penso che loro siano persone eccezionali per il loro impegno, per il senso del dovere e dello Stato, ma più che eroi modelli da imitare. È troppo comodo chiamarli eroi e delegare a loro la risoluzione dei nostri problemi. Ognuno deve fare il suo.
Intervista a cura di Rocco Della Corte