Michele Santoro: mafia, politica e potere in “Nient’altro che la verità”
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8 Settembre 2021Michele Santoro in “Nient’altro che la verità” va a caccia della verità ponendo interrogativi e domande ad una fonte diretta. Maurizio Avola, un feroce killer con all’attivo ottanta omicidi, fornendo la sua versione ha dato elementi utilissimi per comprendere le dinamiche interne ed esterne alla malavita organizzata suscitando in un giornalista specializzato nelle inchieste come Santoro una serie di riflessioni serie, amare e irrinunciabili. Eccone alcune emerse nell’intervista.
Michele Santoro, il suo primo incontro con Maurizio Avola come è avvenuto? In che modo si è poi concretizzata la possibilità di un dialogo tra voi?
Ho incontrato Avola un po’ per caso. Stavo facendo un lavoro su Matteo Messina Denaro, ultimo padrino conosciuto della mafia. Sappiamo pochissimo, l’ultima notizia che ci dà un riscontro certo della sua esistenza in vita risale a quindici anni fa. Fare un’inchiesta su Messina Denaro significa per forza fare un’inchiesta su come è cambiata Cosa Nostra oggi e su cosa è diventata quell’organizzazione capace di attaccare gli equilibri dello Stato democratico. Avola, in un processo, testimoniava di aver compiuto un delitto molto importante, quello del magistrato Scopelliti, proprio insieme a Matteo Messina Denaro. Seguendo questo processo, è avvenuto l’incontro.
Avola è un sottovalutato? Quali sono le sue caratteristiche all’interno dell’organizzazione criminale?
Inizialmente ero scettico su Avola. Ha confessato ottanta delitti, pensavo fosse importante sul piano militare ma meno su quello della pianificazione. In realtà si è rivelato un personaggio sorprendente che mi ha costretto a guardare le cose dal suo punto di vista.
È stato complesso interfacciarsi con lui?
Sì. Dopo aver vinto la sensazione di ripugnanza, perché lui poteva essere persino il mio killer e proprio negli anni di cui mi stavo occupando nell’inchiesta, mi sono trovato di fronte una lettura molto originale del fenomeno mafioso.
In che senso “originale”?
Non era soltanto un killer ma una persona che ha come accumulato nel corso degli anni una serie di notizie con una cura quasi maniacale. Lo sguardo che ne ho ricavato su Cosa Nostra mi ha fatto entrare in conflitto con me stesso, anche per la ripugnanza di cui dicevo, e ho dovuto pormi delle domande che non prevedevo di pormi all’inizio degli incontri.
Si dice che a livello psicologico Avola fosse freddo, certosino e quasi glaciale nell’esecuzione degli ordini…
In realtà non so quanto sia vero, però lui si è costruito questa corazza come se avesse tra virgolette un orgoglio di questo suo mestiere sanguinario. Un mestiere svolto con un orgoglio, sempre tra virgolette, professionale. Non si considera un uomo che uccide per il piacere di uccidere, più un soldato terrorista in azione che ha fatto ciò che serviva alla famiglia per ribadire il suo potere.
L’aspetto più sorprendente della mentalità malavitosa che ha potuto conoscere sotto un’altra prospettiva riguarda proprio questo orgoglio oppure c’è altro?
Questo orgoglio sicuramente, così come la maniacalità che in parte mostro anch’io nel mio lavoro. Sia io che Avola condividiamo l’esser nati in una lava d’ingiustizia che è il Sud di questo paese, ma abbiamo reagito in maniera opposta, io lottando per la legalità e lui lottando per la famiglia, suo principale punto di riferimento
Quali sono i suoi rapporti personali con i “compagni di viaggio”?
Sostanzialmente lui è legatissimo ai suoi “commilitoni”, sempre tra virgolette. Talmente legato che poi nel momento in cui fa un salto di qualità, quando è costretto ad uccidere il suo braccio destro e il suo amico più fraterno, ha una sorta di nostalgia di quei rapporti. Si scoprono comunque tante altre cose interessanti proprio riguardo i rapporti tra le persone.
Intervista a cura di Rocco Della Corte