Paolo Di Paolo, Sandra Petrignani ed Eugenio Murrali per l’inaugurazione di “Velletri Libris”
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27 Giugno 2023“Trovati un lavoro e poi fai lo scrittore” (Rizzoli) è l’ultima fatica letteraria di Paolo Di Paolo. Il libro prende in prestito il titolo da un consiglio tipico, che l’autore non ha seguito, e spazia nella moltitudine di problematiche e difficoltà proprie di chi intende fare dell’arte e della creatività un mestiere. Di Paolo racconta com’è diventato lo scrittore e intellettuale che è oggi, a partire dalla sua testarda vocazione e fino all’amore per le parole e per i libri che l’hanno aiutato in un percorso di crescita non solo professionale ma anche umana.
“Trovati un lavoro e fai lo scrittore”: come hai fatto a non seguire questo consiglio che tutti danno?
Credo che quel consiglio fosse protettivo e anche razionale, le persone adulte lo danno – al di là delle generazioni e delle epoche – a chi manifesta passioni o inclinazioni artistiche. È chiaro che il campo espressivo artistico ha un margine in apparenza inconsistente, porta con sé imponderabilità e rischio. Come ho fatto a non seguirlo? Fidandomi di quel desiderio di diventare uno scrittore e avere una vita giocata sulle parole.
Quali aspetti caratteriali sono entrati in gioco per portare avanti questo desiderio?
La cosa che mi ha portato a far coincidere passione e lavoro è stata l’ostinazione. Mentre assorbivo, mi difendevo, cercavo exit strategy o paracaduti avevo ben presente quello che volevo fare: scrivere. Mi viene in mente Roth, il quale diceva che a salvargli la vita non era stato il talento ma l’ostinazione. Penso che alla fine sia questo: ricevi porte in faccia, silenzi, pensi che non camperai di scrittura, vedi che è tutto faticoso ma diventi il primo datore di lavoro di te stesso. Ovvio che nel momento in cui ti alzi la mattina nessuno viene a chiederti di scrivere perché il mondo non può farne a meno. C’è anche una quota di fortuna, le occasioni devi riconoscerle ma devono anche mostrarsi.
Se dovessi dare tu un consiglio a chi vuole scrivere o provare a fare della scrittura la propria professione?
È decisiva la disciplina, parola autoritaria e un po’ polverosa, ma necessaria come nello sport e nella musica. Se non ci si allena non si avanza, la scrittura non è una cosa casuale ma richiede continuità. Si può scrivere un racconto e non avere successo, poi scriverne un secondo che va meglio… con l’impazienza non si fa strada.
È importante il riconoscimento esterno, ovvero l’essere etichettati come scrittori e non considerati invece come non lavoratori?
Il punto è proprio questo: anche se sei affermato e riconosciuto, è facile che se dici “scrivo” a seguire ti chiedono “e che lavoro fai?”, come se la scrittura non fosse un lavoro. Vale per tutto il cosiddetto popolo delle partite ive, pieno di forme e ruoli in campo creativo. Assimilarlo a un lavoro nella concezione dei più è difficile, anche perché il lavoro è legato alla redditività e non tutti riescono a vivere di professioni creative. Questo è il problema. Il riscontro, comunque, dà una spinta importante. In secondo luogo l’incrocio tra il talento e la fortuna fa da alimento alle occasioni. Dal momento in cui ho pubblicato il primo libro in trecento copie a quando ho pubblicato un romanzo con Feltrinelli sono passati sette anni. Nel mezzo c’è stata una progressione, e un lavoro. Questo vale per tutti, cantautori, musicisti, attori. Si è costantemente in rapporto con la reazione del mondo esterno, ma non ci si deve affidare solo a quella perché al primo momento in cui c’è disattenzione o disinteresse si metterebbe tutto in discussione. È una sorta di trattativa con sé stessi, a un certo punto si creano una serie di relazioni con committenti, una rete che aiuta. Del resto per secoli gli scrittori erano garantiti, pensiamo ad Ariosto o ad altri, protetti da un sistema di mecenatismo nobile che consentiva loro di scrivere.
Il problema dunque è anche rintracciabile in una mancanza di tutela da parte dello Stato verso chi scrive?
In Italia l’incentivo alle professioni creative è minimo, c’è poca attenzione e poco rispetto, come se quelle legate alla scrittura fossero professioni subalterne o hobby di lusso. Girando in Europa o in America ho conosciuto molte realtà in cui lo Stato coopera alla possibilità che gli artisti abbiano emolumenti o incentivi per la loro creatività. Penso a una filiera affascinante con luoghi di soggiorno e residenza per scrittori o artisti, che presentano dei progetti e vengono ospitati in contesti bellissimi dove hanno un periodo medio lungo per poter lavorare, produrre reddito e essere garantito nella stesura. Purtroppo in Italia l’80% di quelli che scrivono deve fare anche un altro mestiere per vivere.
C’è stato un momento in cui hai pensato di mollare e di seguire il consiglio di “trovare un lavoro”?
Dieci anni fa, finito il dottorato di ricerca, ho esaurito il limbo universitario e non ho avuto la spinta né la convinzione o la concentrazione per proseguire la carriera accademica. In quell’estate del 2012 ho sentito un piccolo baratro accanto a me, una certa ansia. È stata incredibilmente favorevole però la situazione: mi hanno chiesto di scrivere dei testi per una trasmissione tv, e questo mi ha dato un paio di stagioni di sicurezza. L’altro elemento decisivo è stato “Mandami tanta vita”, lo stavo scrivendo e l’anno dopo è andato allo Strega. Da lì sono nate tante cose, dalle collaborazioni con i giornali a tutto il resto: fa parte delle improvvise accelerate che si hanno in questo mestiere.
Il dialogo con Sandra Petrignani ed Eugenio Murrali spazia su libri, letteratura, scrittura, vita. Argomenti difficili…
Io ed Eugenio rappresentiamo una generazione diversa rispetto a Sandra, e abbiamo vissuto in maniera diversa il cosa vuol dire diventare scrittori. In lei, ad esempio, c’è forte la relazione con i maestri della generazione precedente l’idea di una società letteraria. Oggi tutto ciò è un po’ polverizzato, i contatti sono più epidermici e incostanti. Quello di prima poteva anche essere un mondo endogamico, ma c’erano riconoscimento reciproco e alleanze strategiche nell’alimentare un dibattito per cui i libri non cadevano nel vuoto. Spesso sento delusione su come si è trasformato il mondo letterario, noi siamo nati al tramonto del Novecento e la cosiddetta età cosciente l’abbiamo vissuta nel Duemila, quindi possiamo guardare solo con ammirazione e invidia al Novecento.
Quanto dura oggi un libro?
Spesso la durata di un libro è talmente circoscritta che sembra che in un mese un romanzo sia già invecchiato. Ora se un autore sparisce per tre anni è morto, i librai e soprattutto i lettori non se lo ricordano più. Questo porta ad eccessi discutibili per cui anche autori di grande notorietà pubblicano tre romanzi all’anno ed è un sovraccarico.
Continueranno a lungo a dire a chi vuole scrivere che è meglio trovarsi un lavoro e poi fare lo scrittore?
Sì, è il consiglio di una vita. Anzi, lo si darà sempre di più. L’illusione che i social possano aprire nuovi orizzonti con un proprio canale fa il resto, il punto è la durata delle occasioni che arrivano. Possono esserci delle occasioni detonanti e incredibili, ma la possibilità di emergere è veramente molto fragile.
Intervista a cura di Rocco Della Corte per Velletri Libris. Si ringrazia Paolo Di Paolo per la cortese disponibilità.