“Geografia di un dolore perfetto” (Garzanti) è l’ultimo romanzo di Enrico Galiano e racconta la storia di Pietro, un uomo che a un certo punto della sua vita è costretto ad affrontare fantasmi che forse neanche sapeva bene di avere e riscoprire il rapporto con la figura paterna. Una telefonata, un viaggio, e un itinerario all’interno di sé per un’indagine a cavallo fra interiorità e famiglia che risulta preziosa da apprendere e conoscere.
Un neologismo che appare all’interno di questo romanzo e ben descrive lo stato in cui vive il protagonista è “spezzanza”. Cos’è la spezzanza e cosa indica?
Io sono sempre stato un feticista delle parole e del potere che le parole hanno nel creare mondi. Ho sempre, in tutti i miei libri, raccontato questa cosa a partire dalle parole intraducibili delle lingue straniere, passando per le parole italiane con le loro etimologie nascoste e misteriose e poi anche inventando io, di mio pugno, parole che mancano. In questo libro ce n’è una sola, appunto la spezzanza, che va a descrivere un tipo di sentimento che secondo me non aveva – in italiano – un corrispettivo. La spezzanza arriva quando ti rendi conto che con una persona si è rotto qualcosa, c’era prima un rapporto bello – un matrimonio, un’amicizia – e poi uno dei due ha fatto qualcosa o è passato del tempo, e insomma non si riesce più a essere quelli di prima. Ecco allora che c’è la spezzanza, qualcosa di più intimo quando senti che dentro di te qualcosa i è rotto o qualcuno ti ha rotto qualcosa e non riesci a riaggiustarti. Grazie a questa parola il protagonista riscrive il proprio rapporto con suo padre.
Il protagonista del libro è Pietro, un uomo apparentemente realizzato. Si sente però incompleto, probabilmente come ognuno di noi, ed è come se dovesse a un certo punto prendere in mano la situazione e affrontare dei fantasmi…
Credo che ognuno di noi abbia degli irrisolti, con i genitori o con altre persone. Questo libro racconta gli irrisolti in ballo con un padre, anzi meglio dire con una figura paterna. Spesso sono le persone più realizzate e sicure di sé che tendono a nascondere le proprie fragilità come scheletri nell’armadio, come polvere da mettere sotto al tappeto. Così è Pietro. Poi, però, quando riceve una certa telefonata il tappeto si alza e tutta la polvere finisce per annebbiare la stanza.
La domanda di fondo è: quando si smette di essere figli? Ha trovato una risposta attraverso la scrittura di questo romanzo?
Si, certo, ed è molto semplice: non smetti mai di essere figlio. Anzi, cominci a essere figlio per davvero molto tempo dopo essere nato. È una scelta che fai, il concetto di questo libro è che un padre può essere scelto così come la figura di un genitore. È una cosa che sceglie non è data dal fatto che metti al mondo una creatura, è una scelta persino quotidiana. Quando ti svegli decidi: “oggi sarò padre o non lo sarò”. Io lo ho scoperto diventando padre a mia volta, e ci sono giorni in cui avrei potuto fare di più.
Il titolo contiene un ossimoro, dolore perfetto. Può un dolore essere perfetto?
Io adoro gli ossimori e questo in particolare mi è servito per descrivere il fatto che anche il dolore più atroce può in realtà essere quello di cui hai bisogno in quel momento per svegliarti e aprire gli occhi rispetto a tante cose che non ti sei detto o non hai ammesso. Questo libro racconta l’arrivo di quel dolore.
Intervista a cura di Rocco Della Corte per Velletri Libris.
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