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15 Luglio 2021Non solo musica ma anche scrittura: l’esordio narrativo di Luca Barbarossa, con una particolare autobiografia che si pone a metà tra il romanzo di formazione e quello d’avventura, porta con sé un’esortazione sin dal titolo. “Perdere” nel senso di non vivere, o di vivere con un filtro straniante che illude e non ci mette realmente “in rete”. Questo libro, edito da Mondadori, è cullato da un’esigenza intima e finisce per rivelare gli aspetti umani e professionali di un grande artista con la patina di una narrazione spigliata e oggettiva. Un vero romanzo, appunto, anche se autobiografico.
Luca Barbarossa, un’autobiografia che è un’esigenza di condivisione dei fatti accaduti o un bilancio arrivati al sessantesimo anno di età? Quando cresce in lei quest’idea?
Il sessantesimo anno di età è stato una bella molla, una bella spinta, ma non è assolutamente un libro di bilancio bensì un romanzo autobiografico. Sono cose che accadono e che ho visto succedere. Di conseguenza ci sono avventure, storie di adolescenza, è un romanzo di formazione. Sono tutte cose accadute nella vita che ho sentito l’esigenza di condividere perché riguardano situazioni interessanti non solo per me.
Lo ha definito un romanzo di formazione: è possibile descrivere la propria formazione senza cadere nell’errore, visto il coinvolgimento?
Si dice che quando una persona comincia a scrivere deve farlo parlando di cose che conosce bene. E ovviamente queste cose che sono nel libro nessuno le conosce meglio di me. Dovendo iniziare un racconto, un romanzo autobiografico, è ovvio che mi sono basato sulle cose di cui sono stato almeno stretto testimone, se non protagonista.
È difficile coniugare la scrittura letteraria con l’esperienza radiofonica o con quella della scrittura cantautorale? Quali sono le differenze?
La verità è che il mio ruolo di cantastorie è un denominatore comune in tutte queste varianti. Racconto storie quando canto, quando scrivo le mie canzoni, anche la radio in fondo si basa sulla narrazione del quotidiano, dei nostri piccoli tic, delle nostre esperienze. Anche in un romanzo come questo, alla fine, si trovano le vicende di quando sono sul palco e tra una canzone e l’altra si parla di retroscena, di cose che il pubblico non conosce e non vede.
Molto spazio dedica, in questo libro, ai protagonisti della cultura e non solo: si parla degli incontri che ha avuto con Maradona e con tanti altri…
Sì, Diego Armando Maradona come Antonello Venditti, Luciano Pavarotti, Roberto Benigni, Gianni Morandi, Mogol… tutte persone con cui ho condiviso un tratto di strada, o mi hanno in qualche modo coinvolto nei loro progetti, affascinandomi e chiedendomi di collaborare. Le nostre strade si sono incrociate e questi sono personaggi talmente enormi che meritavano di essere raccontati fuori dalle righe.
“Non perderti niente” è in fondo un appello al pubblico?
È un’esortazione, perché scrivendo questo libro mi sono anche reso conto che tutto quello di positivo e buono, avventuroso, edificante, formativo che ho vissuto non l’ho fatto mai a distanza, davanti a un pc, a un telefono, a uno schermo. Sono gli incontri fisici, i viaggi, i concerti, le esperienze da artista di strada che ci fanno guardare in faccia a contare. Volevo dunque rivolgermi alle nuove generazioni invitandole ad andarsi a confondere nel mondo, a mischiarsi, fare esperienze avvicinandosi all’altro. Niente come questa pandemia ci ha fatto capire quanto abbiamo bisogno degli altri e quanto gli altri abbiano bisogno di noi.
Intervista a cura di Rocco Della Corte per “Velletri Libris”